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Impotenza appresa, locus of control, bias cognitivi & ego-sostenibilità

pokerNel panorama delle dipendenze patologiche il gioco d’azzardo ha preso prepotentemente spazio nell’ultimo decennio ed oggi in Italia stiamo vivendo una vera emergenza per numerosità di casi e per varietà delle forme di manifestazione del fenomeno. Dal 2007 ad oggi il Progetto Orthos, diretta da Riccardo Zebetto, ha accolto in trattamento di psicoterapia intensiva residenziale breve circa 400 giocatori provenienti da tutto il territorio italiano, Svizzera, Croazia, Francia ed Inghilterra. La maggioranza fra loro proviene dalla regione Toscana, che con la sua lungimiranza ha finanziato l’intervento per i suoi cittadini, contenendo così i danni che si producono nel tessuto sociale di appartenenza.

Nel breve articolo che segue, operando in qualità di socio e Responsabile Area Sud per il Progetto Orthos, vorrei cercare di riassumere alcune considerazioni emerse dall'osservazione clinica e dai ricchi momenti di scambio con i colleghi ed in particolare con Riccardo Zerbetto, Direttore Scientifico ed ideatore del progetto.

Corrispondentemente ai dati relativi al volume d’affari delle diverse tipologie di giochi, la maggioranza delle persone che arrivano in trattamento ha sviluppato dipendenza da slot machines, scommesse sportive e videolottery. In percentuali decrescenti chiedono invece aiuto coloro la cui dipendenza è legata ai Gratta e Vinci, Win for Life, Bingo, poker, casinò…

L’accesso al trattamento può essere effettuato su richiesta diretta dell’interessato oppure su invio dei Servizi per le Tossicodipendenze (o dei Centri di Salute Mentale), e prevede una valutazione attenta della motivazione, della gravità della dipendenza e delle condizioni generali di salute fisica e psichica. Il primo assessment consente quindi all’équipe di Orthos di costituire gruppi composti da 8-10 persone, con presenza media di 1-2 donne, nei quali i livelli di psicopatologia media non vadano ad inficiare le potenzialità degli interventi di psicoterapia in gruppo.  SOGS, BIS11, TAS20, DES-II, PAS-S, PAS-50, MMPI, sono gli strumenti che vengono utilizzati in fase di intake al fine di completare una valutazione complessiva delle condizioni da cui prende inizio il trattamento.  In alcun caso vengono accolti casi in acuzie psichiatrica, che dovranno essere condotti ad uno stato di compensazione presso altri servizi prima di essere inseriti. Circa il 35 % di chi viene introdotto in trattamento presenta tuttavia diagnosi in comorbidità, fra le quali le più presenti sono: depressione, disturbi d’ansia, disturbo border di personalità, sindrome di parkinson. Spesso sono rilevate pregresse forme di abuso e/o dipendenza da alcool e/o sostanze psicotrope. In percentuale minore, ma non marginale, sono state riscontrate precedenti o attuali condizioni di dipendenza/ problematicità nei comportamenti sessuali, alimentari o di acquisto (shopping compulsivo).

Ciò ci conduce direttamente a sottolineare la collocazione del Disturbo da gioco d’azzardo nelle spettro delle dipendenze patologiche, con un modello interpretativo che integra le direttrici che più spesso in letteratura scientifica vengono chiamate in causa: la dipendenza farmaco-simile, il disturbo del controllo degli impulsi, i disturbi dello spettro dell’umore ed il versante ossessivo-compulsivo. Consideriamo le diverse concettualizzazioni non mutualmente escludenti: ai fini ermeneutici e pragmatici è più proficuo considerare la complessità del DGA come declinabile  in sottotipi che si caratterizzano di volta in volta per la preponderanza di una delle direttrici sopra menzionate. Un concetto chiave per affrontare la complessità del DGA è senz’altro quello di “Addiction Prone Personality”(APP): una correlazione chiara fra “Cercatori di Sensazioni- Personalità Antisociale – Psicoticismo” e uso problematico di alcool è stata dimostrata con studi longitudinali (Barnes et al. – 2000) e nuove messi di dati da raccogliersi  fra i giocatori d'azzardo problematici, potrebbero aiutarci nel verificare se le direttrici di personalità riassunte dal concetto di APP siano significativamente predittive circa la possibilità di sviluppare una dipendenza da gioco.

Una maggiore comprensione dei tratti disfunzionali significativamente associati al gioco patologico, può permetterci infatti di sviluppare protocolli specifici di intervento:

Alessitimia > Sensibilizzazione emotiva, Psicoeducazione, Training di consapevolezza…
LOC esterno > Riaddestramento attribuzioni , Focusing su progettualità  & responsabilità…
Impulsività > “Stop & Think”, Consapevolezza emotiva,  Espressione-Elaborazione…

Le direttrici principali di personalità su cui si fonda il concetto di APP sono Sensation/Exitement/Novelty Seeking da un lato e Antisocialità/Psicoticismo dall’altro, aspetti che si riflettono rispettivamente nell’impulsività e nell’alessitimia frequentemente rilevate dagli approfondimenti diagnostici adottati dall’équipe di Orthos. Nelle indagini effettuate l’impulsività è correlata a livello di trend con l’alessitimia, segnalando come il tratto impulsivo sia probabilmente connesso ad inadeguati meccanismi di elaborazione intrapsichica e comunicazione intersoggettiva delle emozioni, nonché di un loro insufficiente utilizzo come guida per il comportamento. Inoltre, il primo fattore della TAS-20, (DIF - difficoltà nell’identificare le emozioni e distinguerle dalle sensazioni somatiche), mostra valori elevati di associazione con le esperienze dissociative misurate dalla DES-II, confermando quanto già rilevato in letteratura rispetto ad altre forme di dipendenza patologica (Caretti, Craparo, Schimmenti, 2006[ii]; Caretti et al., 2007[iii]).

La presa in carico del giocatore problematico o francamente patologico non può quindi prescindere dal considerare la complessità eziopatogenetica e dal tentativo di strutturare esperienze riparatorie/catartiche e percorsi di ridefinizione del Locus of Control nei termini della padronanza.

Gli studi effettuati sui giocatori d’azzardo ed i tentativi di classificazione in tipologie, (Greenson,1947[iv]; Moran,1970[v]; Glatt,1974[vi]; Custer,1984[vii], per nominarne alcuni) hanno evidenziato una notevole complessità dei percorsi eziopatogenetici e delle forme di manifestazione del problema. Attualmente è invalsa la tendenza a considerare di una certa utilità la distinzione tra giocatori d’azione e giocatori per fuga (Lesieur & Blume, 1991[viii]) in quanto la difformità delle motivazioni al gioco e delle caratteristiche di personalità tra queste due categorie suggerisce protocolli di trattamento diversificati. Ai fini dell’argomento che stiamo presentando è importante però orientare la nostra attenzione verso le tipologie descritte da Moran (ibidem) nei termini di “gioco sintomatico” e “gioco impulsivo”. Per il giocatore sintomatico, (paragonabile all’alcolista tipo alfa di Jellinek[ix]) il gioco è un’espressione diretta del disturbo psicologico di cui soffre (forme reattive di natura nevrotica, disturbi di personalità, psicosi). Nel giocatori impulsivi (fra i quali ritroviamo tratti degli alcolisti sia tipo gamma sia tipo delta di Jellinek; ibidem) l’incapacità di astenersi dal gioco e di evitare di pensare ad esso, causata da fattori di natura psicologica e sociale, viene in parecchi casi agita drammaticamente, con fasi di perdita di controllo che si alternano a momenti di astinenza. Entrambe queste tipologie si caratterizzano quindi per la presenza di problematiche affettive/relazionali preesistenti, che possono essere considerate il substrato sul quale si sono sviluppate le manifestazioni attuali di discontrollo degli impulsi (DSM IV-TR[x] e ICD-10[xi]). Nei giocatori sintomatici il disturbo si è strutturato a partire da una vulnerabilità emotiva premorbosa, come descritto da Blaszczynski e Nower[xii]: in questi soggetti riscontreremo quindi spesso condizioni d’ansia, di depressione, di comorbilità con l’abuso di alcool, nonché storie familiari caratterizzate da aspetti problematici, fra i quali non sono rari il gioco d’azzardo o altre dipendenze patologiche dei genitori. Fra chi viene descritto da Moran come “giocatore impulsivo” saranno invece più frequenti disturbi di personalità (in particolare antisociale), tratti borderline, disturbi da deficit dell’attenzione, ed in generale, ci troveremo di fronte a casi in cui l’impulsività dà luogo ad una vastissima gamma di manifestazioni disadattive (abuso di sostanze, isolamento socio-affettivo, tendenza a delinquere, sensation seeking, irritabilità, scarsa compliance ai trattamenti,…) che rendono difficile l’aggancio ed il trattamento. Nel percorso terapeutico-riabilitativo del Progetto Orthos i giocatori problematici e patologici, appartenenti ad entrambe le tipologie sopra descritte, sono stati accolti ed introdotti ad incontri terapeutici individuali e di gruppo volti a promuovere quelle pratiche introspettive e quella  rivisitazione del percorso di crescita socio-affettiva che sono indispensabili al fine di individuare le componenti emozionali, cognitive, relazionali e comportamentali che hanno determinato l’instaurarsi ed il perpetuarsi di modalità disadattive di regolare i propri impulsi e soddisfare i propri bisogni[xiii]. In questo quadro, ciò che inizialmente prende forma come ricostruzione condivisa di un’anamnesi degli stati emotivi e delle condizioni relazionali dello sviluppo, si declina passo dopo passo nella possibilità di osservare come ciò che emerge dal lato affettivo si intrecci con le introiezioni e le credenze disfunzionali che caratterizzano il versante cognitivo del disturbo. Nel corso degli interventi individuali e di gruppo si presenta in tutta la sua evidenza la struttura coevolvente degli aspetti emotivo/relazionali e di quelli cognitivo /immaginativi. Diventa così possibile sottolineare come “carenze” o “invasioni” che abbiano interessato uno di questi due assi portanti si ripercuotano su entrambi, alimentando una spirale patogena. Nello specifico, sono stati riscontrati numerosi casi in cui ai segni distintivi dell’impotenza appresa si accompagnano caratteristici bias di natura cognitiva quali l’illusione di controllo, modalità di pensiero magico, la fallacia del giocatore nelle sue diverse forme[xiv], la ridefinizione delle situazioni in termini autogiustificanti (e ancora: clustering illusion, availability heuristic, attentional bias, illusory correlation, ludic fallacy, optimism bias, overconfidence effect, positive outcome bias, rosy retrospection, Texas sharpshooter bias…).

Seligman [xv],[xvi] ha descritto il concetto di “impotenza appresa” come un complesso di deficit emotivi, cognitivi e della motivazione, derivante da ripetute esposizioni ad eventi negativi incontrollabili: soggetti animali sottoposti a questo tipo di situazioni svilupparono, nel contesto sperimentale da lui ideato,  condizioni di depressione, mancanza di reattività, abulia / akrasia che persistevano anche a mutate condizioni. Ciò non avveniva però in quei soggetti ai quali durante la fase sperimentale iniziale fosse garantita una possibilità di controllo: le inferenze esplicative che ne derivarono misero quindi in relazione il prodursi di episodi connotati negativamente con l’impossibilità di agire, di compiere azioni che potessero influenzare il determinarsi degli eventi. L’impotenza appresa si può quindi descrivere come un apprendimento nel quale la consapevolezza della propria impotenza (reale) viene assunta come inevitabile, e generalizzata a contesti e situazioni che non hanno più a che vedere con quelli originari. Gli obiettivi auspicati, attesi, non possono essere più messi in relazione con atti, sforzi praticabili, ed il soggetto precipita nell’inazione. Il concetto, essendo mutuato dalla ricerca sugli animali è stato in seguito criticato e rivisitato da più parti, ed anche dallo stesso Seligman: insieme ad Abramson e Teasdale[xvii] egli ha introdotto modifiche al quadro teorico iniziale che non contemplava le attribuzioni causali fatte dalle persone in relazione alla propria impotenza. Un’attribuzione causale interna, generalizzata e stabile riferita all’impotenza, conduce infatti ad un senso di ineluttabilità più marcato e ad una sfiducia più estesa, laddove invece attribuire la propria impotenza a fattori esterni, oppure interni ma specifici e/o variabili può consentire di sottrarsi alla generalizzazione ed alla cronicizzazione.

A questo proposito: “L’associazione tra alessitimia e locus of control deriva dall’osservazione che i soggetti che ottengono punti elevati alla TAS-20 risultano avere un LOC esterno. Sembrerebbe logico: una persona scarsamente in contatto con le proprie emozioni, priva quindi della possibilità di utilizzarle come base per il pensiero e la motivazione, può ritenere che gli eventi dipendano dalla sorte, o da “altri potenti” (Solano, 2001; Carpini, 2008)

Osserviamo ora la relazione intercorrente tra illusione di controllo ed impotenza appresa : quest’ultima, che emerge da vissuti nei quali la mancanza di controllo è centrale e determinante, si manifesta tendenzialmente in contrappunto rispetto ai bias cognitivi di cui sopra: la comparsa di bias cognitivi specifici (che si sostanziano in interpretazioni difensive) è quindi in questi casi il risultato di un’autoregolazione che si attiva al fine di evitare il vissuto depressivo che può derivare dalla perdita del controllo in situazioni di stress, di incertezza, di caos, così come sostenuto da Fenton-O'Creevy et al.[xviii], i quali, studiando il fenomeno in ambito di business performance, hanno tra l’altro rilevato una drastica riduzione di prestazioni nella capacità di analisi, di generare profitti, nonché nella gestione del rischio tra coloro che fossero inclini all’illusione di controllo. In sostanza, quando una possiblità di genuino controllo del proprio mondo fallisce, una strategia di coping efficace per combattere i vissuti depressivi, di incertezza e di stress può essere lo sviluppo di forme di pensiero magico, di illusioni di controllo che, fino ad una certa soglia, hanno funzione adattiva in quanto sostengono la motivazione e la resilienza.

Nel promuovere azioni di contrasto allo sviluppo ed al mantenimento delle diverse forme di dipendenza patologica, è però importante mantenere una visione multidimensionale ed occuparsi dei risvolti bio-psico-sociali del fenomeno. Conservare una consapevolezza chiara di come questi fattori siano indissolubilmente embricati, anche quando ci occupiamo di un versante specifico del problema, significa custodire quella frattalità del pensiero che ci consente di vedere in trasparenza la sovrapposizione di livelli che vanno dall’espressione della vulnerabilità biologica (originaria o acquisita), alla sofferenza psichica, o ancora, a quel “mal-essere” sociale che trova un suo canale di espressione nella persona - “anello debole” del sistema, la quale diventa sintomatica in quanto al crocevia di condizioni esistenziali (bio-psico-sociali) insostenibili. Qui diventa importante spendere qualche parola in più sul concetto di “egosostenibilità”: con licenza poetica, “ego” è qui inteso in termini olistici, come “organismo vivente in un contesto ambientale” e non nella classica accezione psicoanalitica che lo vede come un abbozzo rudimentale dell’Io, primitivo e narcisistico. Potremmo quindi definire “egostenibilità” quella condizione esistenziale in cui, per uno specifico individuo, le determinanti bio-psico-sociali si presentano come “sufficientemente buone” ed in uno stato di equilibrio tale da consentire uno stare al mondo a-sintomatico, o quantomeno non patologico. Al contrario, l'inadeguatezza originaria o il danneggiamento / depauperamento di uno o più fra questi aspetti, può condurre a condizioni esistenziali che la persona (organismo in contesto) non è più in grado di sostenere: in questi casi, una qualche forma (benché morbosa) di equilibrio può essere riconquistata soltanto tramite una regressione che spesso si accompagna a manifestazioni francamente sintomatiche, fra le quali la dipendenza patologica è delle più comuni. Il consumo di alcool e di tabacco come strategia maladattiva di coping (fronteggiamento dello stress) è ampiamente diffuso e documentato, così come sono purtroppo tristemente noti i consumi di stupefacenti per finalità prestazionali, anche di carattere relazionale (doping non più sportivo, ma “esistenziale”), assimilabili in qualche misura all’aumento delle vendite di antidepressivi e ansiolitici (+4,4% di farmaci per il SNC fra gennaio e settembre 09 – Rapporto OsMed). È assai facile che una strategia di coping disfunzionale si trasformi in una dipendenza: quando le nostre risorse bio-psico-sociali sono inadeguate in rapporto alle nostre attese o alle richieste ambientali ed imbocchiamo la strada del “doping-coping”, anziché maturare il necessario contatto con le nostre possibilità ed i nostri vincoli, la dipendenza è alle porte, in quanto “ se non è una risposta, quantomeno ci fa dimenticare la domanda” come recita un proverbio tedesco. Come in ogni preghiera (cfr. Turgenev), chiediamo alla sostanza psicoattiva o al comportamento maladattivo: “fa che nella mia vita due più due non faccia quattro”, ma cinque… Nel gioco d’azzardo problematico e/o patologico questa aspettativa magica sembra particolarmente presente. Dobbiamo ricordare che, pur essendo talvolta nate nello stesso quartiere, con le stesse opportunità economico-sociali e magari anche nella stessa famiglia, le diverse persone vivono condizioni esistenziali differenti. Innanzitutto sono portatori di un proprio bagaglio “temperamentale”: sappiamo infatti che ognuno ha un corredo genetico peculiare che lo contraddistingue fin dalla vita prenatale. Le ricerche scientifiche degli ultimi anni ci confortano nel riconoscere che fin dalla più tenera infanzia sono presenti tratti distintivi del tutto personali, che caratterizzano ogni singolo individuo: fra queste caratteristiche possiamo tuttavia individuare alcune vulnerabilità comuni (Ipertimia, ADHD, …) che andranno in seguito a configurarsi come fattori di rischio per lo sviluppo di una personalità incline alla dipendenza (Addiction Prone Personality). Inoltre, nei primi anni di vita, fin dal periodo prenatale, ognuno di noi sperimenta l’influenza di congiunture ambientali irripetibili, nelle quali le esperienze, le costellazioni valoriali e gli schemi relazionali della famiglia e degli altri significativi, intrecciandosi con le caratteristiche di base della persona, vanno a modulare/modellare la nostra personalità e le modalità del nostro “stare al mondo”. Le fantasie, le paure, le convinzioni che si instaurano negli anni della nostra “formazione” in quanto individui, contribuiscono ad orientare peculiarmente il nostro sguardo sul mondo ed infine l’ambiente sociale, culturale ed economico in cui cresciamo e diventiamo adulti, esercita la sua inesorabile influenza, nel bene e nel male. Ogni azione volta a contenere lo sviluppo ed il radicamento della dipendenza andrà dunque strutturata avendo bene in mente la globalità della persona e la sua relazione con l’ambiente, così come avviene nei trattamenti integrati. In questi percorsi, che in genere vengono chiamati di “recupero” o “riabilitativi”, non è raro incontrare persone che hanno avuto la sventura di trovarsi con radici bio-psico-sociali così indebolite dalla carestia relazionale, così ferite da eventi traumatici, da non essersi potute permettere nessuna conquista da “recuperare”, nessuna “abilità” della quale riappropriarsi: in questi casi sarebbe più corretto parlare di percorsi evolutivi, nei quali sarà nostro compito accompagnare chi soffre alla scoperta delle proprie possibilità ed all’accettazione dei propri limiti, contribuendo così a costruire ed a rafforzare quella dimensione di egosostenibilità così fondamentale per tutti.

Il percorso terapeutico-riabilitativo proposto da Orthos si fonda sull’integrazione di psicoterapia della gestalt, interventi psicoeducativi, coaching, elementi di bioenergetica e terapia sistemico-relazionale, meditazione e counselling.

La strutturazione di esperienze evolutive che consentano il passaggio da “learned helplessness” a “learned hopefullness”, favorendo la ridefinizione di un equilibrio in materia di locus of control nel senso della “padronanza” e stimolando il superamento delle condizioni di alessitimia è quindi l’asse portante dell’intervento Orthos:

  • osservazione della cristallizzazione/fissazione a modalità di contatto disadattive;
  • riappropriazione di aspetti emotivi disturbanti;
  • empowerment /riappropriazione del senso di autoefficacia tramite approcci di lavoro per obiettivi;
  • dall’appoggio esterno/influenza esterna  (fantasmatico–inconsistente) all’autoappoggio / locus of control interno (realistico–sostanziale);
  • conoscenza  e riappacificazione con il proprio “daimon”;
  • riappropriazione della responsabilità, della consapevolezza dei propri bisogni, della dinamica piacere/dispiacere, della possibilità di gioco sociale – gioco consapevole;

sono alcuni degli strumenti di intervento che l’équipe del Progetto Orthos utilizza nei moduli che potremmo con licenza definire “servizi di rianimazione psicologica”.

Nei mesi seguenti, per la durata di un anno, i partecipanti si manterranno in contatto sia fra loro (con la costituzione di un sistema “a catena” per le comunicazioni) sia con gli operatori Orthos al fine di monitorare il percorso di “assimilazione” delle esperienze riparative vissute nella fase intensiva di trattamento. A tre mesi, sei mesi ed un anno dalla fine dell’esperienza intensiva il gruppo originario farà ritorno al luogo di cura per condividere, affrontare difficoltà, “celebrare” conquiste, continuare a “fare anima”…

 

Claudio Dalpiaz

Psicologo, Psicoterapeuta
Resp. Area SUD Progetto Orthos
Presidente Psy+ Onlus
Psicoterapeuta c/o Centro Diurno Stella Polare – RmE - Roma
www.claudiodalpiaz.it

 

 

Bibliografia

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V.Caretti, G. Craparo, A. Schimmenti (2006). Fattori di rischio della dipendenza patologica in adolescenza. INFANZIA E ADOLESCENZA, vol. 3; p. 160-169, ISSN: 1594-5146;

V. Caretti, E. Franzoni, G. Craparo, G. Pellegrini, A. Schimmenti (2007). Disregolazione affettiva e dissociazione come predittori dei vissuti traumatici nei disturbi del comportamento alimentare. INFANZIA E ADOLESCENZA, vol. 1; p. 1-13, ISSN: 1594-5146

Greenson R. (1947), On Gambling, American Imago, 4, 61-77;

Moran, E. (1970). Varieties of pathological gambling. British Journal of Psychiatry, 116, 593-97;

Glatt (1974) A Guide to Addiction and its Treatment—Drugs, Society and Man. J.Wiley & Sons Inc.;

Custer, R. J. (1984) Profile of the pathological gambler. Journal of clinical psychiatry, 45, 35-38;

Lesieur, Henry R. and Sheila B. Blume. (1991) When lady luck loses: women and compulsive gambling. in Feminist Perspectives on Addictions, ed. Nan van Den Bergh, 181-197. New York: Springer Publishing Co.;

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