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Di stigmi e punture

 

Stigma (στίγμα) in greco significa segno, marchio, puntura.

E i marchi sono quelli che spesso mettiamo su certe storie come sulle persone. Soprattutto se hanno qualcosa che temiamo ci possa appartenere e da cui sentiamo l’urgenza di prendere le distanze.

Lo stigma lo incontriamo purtroppo spesso nelle etichette psichiatriche, su bambine e bambini irruenti, sulle donne, sugli uomini alcolisti, sulle prostitute in strada, su una minigonna che va contro il pudore, talvolta anche su un uomo che piange.

Stigma e salute mentale. Stigma e dipendenze. Ecco su cosa ci soffermeremo nelle prossime righe.

Homelessness* e salute sono spesso come due strade parallele che non si incrociano, come due ruote che girano in sensi opposti, come due orologi asincroni. Ma non sempre. Serve anche una buona capacità di sopravvivenza per resistere alla vita in strada.

Problemi di salute fisica e psichica e dipendenze patologiche sono largamente diffusi tra le persone che vivono sulla strada. Ce lo dicono numerosi studi nazionali e internazionali sul tema dell’homelessness.

Molto frequenti sono, inoltre, condizioni di doppia diagnosi, in cui la malattia mentale si somma alla dipendenza patologica. E possiamo pensare che l’abuso di alcool e sostanze origini da condizioni ambientali, ma che possa anche essere la manifestazione di un vero e proprio circuito della dipendenza, in cui l’incapacità di gestire gli impulsi conduce al ricorso alla sostanza per calmarli e, quindi, a una ricerca continua e sempre più massiccia di alcool o droga (molto spesso l’alcool la fa da padrone, perché più facile da trovare e a costi più bassi). Il meccanismo della dipendenza ha un substrato neurobiologico che si alimenta di rinforzi, craving e compulsioni. Alla base di tutte le dipendenze ci sono fattori biopsicosociali complessi e patologici, fatti di traumi, ritraumatizzazioni, depressione, ciclicità compulsiva: tentativi maldestri di autoterapia e fuga. La sostanza rimane, così, l’unica cura a disposizione. La sostanza sostituisce il farmaco, il letto, la realtà, la relazione. Così come altrove è la relazione che cura, su strada spesso l’alcool e la droga sono l’unica cura palliativa a quella realtà altrimenti troppo dolorosa da sopportare.

Spesso su strada vediamo persone che soffrono per o che sono intrappolate in un Sé traumatizzato, perché in fondo questa vita ai margini rappresenta un trauma cumulativo: tanti eventi e condizioni anche non necessariamente eclatanti, ma che si ripetono, come una goccia cinese, giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno. Resistere incolumi alla vita in strada è un’illusione forse, una richiesta molto impegnativa per la persona coinvolta, una negazione per chi la notte torna a dormire nel suo letto. Ecco allora che la neorealtà, l’uso di sostanze e altre difese forse talvolta bizzarre rappresentano l’unica via di fuga per resistere e sopravvivere alla marginalità, al dolore, all’isolamento.

“Progettuali” o “aiutati che Dio ti aiuta”

La difficoltà per certe persone di accedere alla rete ordinaria dei Servizi è data, oltre che dai problemi burocratici e di rete, anche dal fatto che l’attività mentale a volte arriva a sovrastare la vita reale, i pensieri diventano così pervasivi da trasformarsi in esperienze acustiche, visive, sensoriali. I processi cognitivi ne risentono, diminuisce la memoria per le piccole cose, la capacità di orientarsi nello spazio e nel tempo, la pianificazione delle azioni più semplici come raggiungere un ufficio, la voglia di fare qualsiasi cosa, il senso di continuità, i movimenti. 

Come vengono etichettate queste persone (perché, oh, sì, che vengono etichettate)? Come non collaborative. In questi sistemi sociali così stereotipati spesso vengono adattati maldestramente termini, verbi, aggettivi che nella grammatica italiana non nascono per essere correlati alle persone: è l’esempio di “colloquiare” per parlare con qualcuno, “utenti psichiatrici”, come se psichiatrica fosse la persona e non l’etichetta diagnostica, “progettuale”, come se la persona fosse una fase di elaborazione di un progetto e non il soggetto partecipe e coinvolto. Quanto è vero che le parole sono importanti. Quanto è vero che la relazione è fatta di parole e comunicazione. Quanto è vero che lo stigma si esprime anche con questi timbri terminologici.

Lo svanire progressivo del Sé può essere accompagnato da una sensazione pervasiva di ansia, agitazione, terrore che può anche aumentare nel contatto con l’altro/a. Questa ansia di annichilimento, lo svanire del Sé, la disintegrazione di sé (il “terrore senza nome” di Bion), l’ottundimento cognitivo, ma anche gli affetti appiattiti o irruenti, travolgono la persona e la trascinano ai margini relazionali e sociali, al ritiro, alla catatonia, alla fuga in una neorealtà

Strada e stigma

La letteratura ci insegna che per lavorare con le persone senza dimora serve una formazione specifica, la capacità di saper cogliere i nessi tra persone senza una dimora, malattia mentale e dipendenze, così come l’abilità nel muoversi nella rete dei Servizi territoriali, un approccio multidisciplinare integrato, competenze di case management (e “stare” nel percorso, nel caso, nelle storie, tollerando le frustrazioni) e la gestione delle risposte controtransferali suscitate dalla relazione.

Già per la malattia mentale, ma ancor di più per le dipendenze, oltre a non esser considerata “progettuale”, la persona suscita spesso frustrazione e senso di impotenza in chi cerca di fornire supporto. Ma molto spesso verso queste persone nascono anche reazioni negative, ostili, di espulsione e rigetto: soprattutto chi abusa di alcool e sostanze è visto come bugiardo/a, manipolativo/a e non collaborativo/a, “puoi uscirne, sei tu che te la cerchi”. Questo atteggiamento espulsivo ignora il fatto che la dipendenza non è una questione di scelta o di forza di volontà.

In psicologia esiste il meccanismo di difesa dell’identificazione proiettiva, attraverso il quale la persona allontana da sé vissuti spiacevoli, depositandoli su qualcun’altra che ben si presta a questa espulsione, ma ne rimane legata attraverso pensieri sprezzanti, criticandola, escludendola. Io sono bravo/a, tu sei sporco/a e cattivo/a. E in fondo è così che funziona lo stigma.

* In inglese il suffisso -ness viene impiegato per formare dei sostantivi che indicano una condizione, uno stato. Si è scelto di utilizzare il termine anglosassone per facilitare un’immediata lettura e perché largamente in uso nel panorama scientifico internazionale. 

Giovanna Teti

BIBLIOGRAFIA UTILE SUL TEMA:

www.comip-italia.org

D. K. Padgett, B. F. Henwood, S. J. Tsemberis (2016). Housing First. Franco Angeli, Milano, 2018

https://www.fiopsd.org/wp-content/uploads/2018/01/linee_indirizzo.pdf

http://www.quotidianosanita.it/scienza-e-farmaci/articolo.php?articolo_id=55098

https://www.quotidianosanita.it/scienza-e-farmaci/articolo.php?articolo_id=71189

https://www.sanita24.ilsole24ore.com/art/medicina-e-ricerca/2017-10-10/salute-mentale-fardello-stigma-che-allontana-cura-122121.php?uuid=AEjRo0iC&refresh_ce=1

Photo credits:  ©Tommaso Berretta

** Note sull'autrice: Giovanna Teti è psicologa, psicoterapeuta ed esperta in psicodiagnostica. Ha inizialmente lavorato nei Servizi territoriali per adulti e con l’età evolutiva, per poi dedicarsi al settore della psicologia ospedaliera. Da diversi anni si occupa di adozioni e attualmente è referente per la sede di Roma del Servizio Regionale per le Adozioni Internazionali. Da alcuni anni lavora con le persone senza dimora come operatrice di strada per il Comune di Roma. Socia di PsyPlus dal 2021, attualmente si sta dedicando allo sviluppo dell’Area dedicata all’Inclusione sociale e al contrasto alla grave emarginazione adulta con l'obiettivo di realizzare progetti di Housing First nelle città di Roma e Pescara.

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